È stato pubblicato qualche giorno fa da Eticanews l’articolo di Fausta Chiesa L’italiano che vuole pulire i diamanti che descrive il ruolo e la figura di Gaetano Cavalieri, presidente del CibJo (acronimo di Confederation International de la Bijouterie, Joaillerie, Orfevrerie des Diamants, Perles et Pierres), l’organizzazione mondiale dei gioiellieri fondata nel 1926 a Parigi.
Nominato presidente nel 2000, ossia nello stesso anno in cui a Kimberley in Sudafrica iniziano i lavori di quello che diverrà poi noto come Kimberley Process, Gaetano Cavalieri ha seguito passo dopo passo il percorso intrapreso dalla enclave internazionale dell’oro e dei diamanti insieme alle organizzazioni internazionali e alle burocrazie statali per affrontare il drammatico problema del panorama di guerre e sfruttamento legato all’estrazione e alla commercializzazione di diamanti e pietre preziose. Un percorso virtuoso? NOI CREDIAMO DI NO. Noi non crediamo infatti negli effetti positivi del Kimberley Process e come noi molti altri.
Un articolo di David Rhode pubblicato sul Guardian lo scorso 24 marzo, The Kimberley Process is a ‘perfect cover story’ for blood diamonds, illustra in maniera chiara come l’adozione dei protocolli definiti a Kimberley (cui non a caso aderisce quasi la totalità dei paesi produttori di diamanti) e la conseguente certificazione offrano solo un’illusione di tracciabilità, ma di fatto non forniscano alcuna garanzia sulla reale provenienza della pietra e sulle modalità tramite le quali è stata estratta. Scrive David Rhode:
Il protocollo ha due difetti principali. In primo luogo, i termini ristretti di certificazione che definisce si concentrano esclusivamente sull’estrazione e sulla distribuzione dei cosiddetti conflicts diamonds (ossia i diamanti insanguinati, ndr) il che significa che questioni più ampie riguardanti lo sfruttamento dei lavoratori – la salute e la sicurezza delle condizioni di lavoro, l’impiego di lavoro minorile e l’equa retribuzione – non vengono affrontate. Non impedisce nemmeno che intere popolazioni possano essere sfrattate dalle case che abitano da secoli per far posto alle miniere.
In secondo luogo, il certificato rilasciato dai Kimberley Process non si applica a un’unica pietra, ma a una partita di diamanti grezzi che vengono poi tagliati e spediti in tutto il mondo. Privo di un vero sistema di tracciamento, è qui dove finisce il percorso.
Se un consumatore si recasse nella maggior parte dei gioiellieri nel Regno Unito e chiedesse l’origine di un diamante in esposizione, è assai improbabile che il personale sia in grado di indicare precisamente il paese, e tanto meno la miniera, da dove proviene la pietra.
Rhode non usa mezzi termini e qualche riga dopo definisce il Kimberley Process una “comoda cortina di fumo”.
Tutto perduto dunque? No. Quella che Rhode chiama il “track and trace” model applicato da alcune miniere del Nord Ovest del Canada e che prevede l’incisione a laser di un codice unico su ogni pietra estratta e destinata al mercato internazionale delle pietre preziose, accompagnata dal logo della foglia d’acero (Canadian Markt), offre l’assoluta certezza sulla provenienza del diamante. Per questo da anni, Gioielleria Belloni sceglie proprio le pietre di cui parla anche David Rhode sul Guardian per la propria collezione di gioielli Ethical Diamond.
Non servono complicati processi burocratici, fumose convenzioni, tonnellate di carta contenenti normative generiche o pompose nomine internazionali che dietro garantiscono davvero poco in termini concreti. È sufficiente un codice unico di tracciabilità per ogni pietra estratta che garantisca al consumatore la provenienza in maniera chiara e sicura. Starà poi al consumatore scegliere o meno una pietra proveniente da una miniera che mette in atto rapporti di lavoro rispettosi dei diritti umani e attua pratiche compatibili con l’ambiente dei bacini di estrazione. Diminuire i passaggi burocratici invece di aumentarli è la prima garanzia contro il sorgere di qualsiasi cortina di fumo.
Noi non crediamo, infatti, che i diamanti vadano puliti, come nel titolo dell’articolo pubblicato da Eticanews il 12 settembre scorso, ma piuttosto che debbano nascere puliti come quelli che da anni acquistiamo dal Canada. Per noi tracciabilità significa infatti rendere immediatamente disponibili al consumatore tutte le informazioni che scrivono la storia del prodotto da acquistare, non elargire titoli ed etichette di prestigio ma che poco raccontano in concreto della sua origine…
Francesco Belloni